La sentenza sull’omicidio di Giulia Tramontano: quando la giustizia fatica a leggere la violenza di genere – Avv. Concetta Sannino

La sentenza sull’omicidio di Giulia Tramontano: quando la giustizia fatica a leggere la violenza di genere

 

La recente decisione della Corte d’Assise d’Appello sul caso di Giulia Tramontano, uccisa brutalmente dal compagno Alessandro Impagnatiello, si inserisce in un quadro drammatico che l’Italia conosce fin troppo bene: quello del femminicidio. Una vicenda che non riguarda solo la singola responsabilità penale dell’imputato, ma che interroga la società, le istituzioni e la giustizia sulla capacità di riconoscere e nominare la violenza di genere.

 

Se è vero che la Corte ha confermato la gravità dei fatti, è altrettanto vero che il linguaggio e le categorie interpretative usate nelle motivazioni appaiono ancora legati a un paradigma che fatica a chiamare le cose con il loro nome. La violenza che Giulia ha subito non è stata soltanto l’esito di una lite degenerata, ma il culmine di un percorso di controllo, possesso e annientamento che porta il marchio del femminicidio.

 

Eppure, nella sentenza si avverte una certa resistenza a inserire l’omicidio all’interno di questa cornice strutturale. La ricostruzione del movente si concentra sugli aspetti personali – la relazione parallela, la paura di essere smascherato, le tensioni quotidiane – lasciando in secondo piano la dinamica di dominio che caratterizza la violenza maschile contro le donne. È come se la responsabilità venisse letta in chiave esclusivamente individuale, slegata dal fenomeno collettivo che invece continua a mietere vittime in tutta Italia.

 

Questo approccio non è neutro. Parlare di “gelosia”, “crisi sentimentale” o “raptus” – anche solo come sfondo – rischia di diluire la portata culturale del femminicidio. Il linguaggio giudiziario, che dovrebbe essere strumento di chiarezza e di educazione civile, talvolta finisce per normalizzare la violenza, riducendola a un fatto privato e contingente.

 

Un altro aspetto critico riguarda la scarsa attenzione riservata alla condizione della vittima. Giulia non era solo una giovane donna, ma una donna incinta di sette mesi: un elemento che amplifica la gravità del gesto e che avrebbe richiesto una riflessione più approfondita sul significato simbolico dell’eliminazione della madre e del figlio insieme. Invece, questo dato viene trattato quasi come un’aggravante tecnica, più che come il segno di una violenza estrema e disumanizzante.

 

La giustizia penale non può, da sola, risolvere il problema della violenza di genere. Ma può e deve nominare le cose con precisione. Riconoscere un femminicidio non significa inventare nuove figure di reato, ma leggere i fatti alla luce di un contesto sociale e culturale che li produce. Ogni parola pesa: nelle aule di giustizia si costruisce anche il discorso pubblico, e con esso la percezione collettiva del fenomeno.

 

Il caso Tramontano dimostra che siamo ancora lontani da una giustizia capace di fare pienamente i conti con la violenza maschile contro le donne. Le sentenze possono condannare un colpevole, ma se non cambiano lo sguardo rischiano di non incidere sul futuro. La memoria di Giulia e di tutte le vittime di femminicidio chiede invece un salto di consapevolezza: che la violenza di genere venga finalmente riconosciuta come una questione strutturale, e non relegata al margine delle cronache

giudiziarie.

 

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